Perdere con il Rennes non è un grosso problema.
Quando giochi in inferiorità numerica per quasi un’ora, contro una squadra che vola sulle ali dell’entusiasmo, può capitare di non saper controllare l’onda d’urto.
Il problema è quel terzo gol e soprattutto il modo in cui è arrivato.

 
Il gol del 3-1 ci ha riportati indietro nel tempo, ad un’epoca che mi sono illuso fosse sepolta per sempre; per una attimo mi è parso di rivedere Arsène Wenger in panchina e in campo giocatori che si gettano in avanti come si trattasse dell’ultimo minuto di una finale secca, anziché la partita d’andata di un ottavo di finale.

Per un attimo sono tornati in superficie i fantasmi delle eliminazioni patite contro Monaco o Bayern, maturate nei minuti finali delle gare di andata a causa di scelte tattiche scellerate.
Ieri come allora, ho visto troppi giocatori accompagnare l’azione offensiva e lasciare campo al contropiede avversario – che puntualmente ci ha castigati e che potrebbe costarci una bruciante eliminazione.
Come ho detto, perdere in trasferta contro una squadra in forma come il Rennes è perfettamente accettabile, ancor di più quando giochi in dieci contro undici, ma l’ingenuità nella gestione della partita non lo è: in un frangente simile e con un avversario che fa del contropiede la propria arma migliore, una squadra matura decide di limitare i danni e mantenere il più aperto possibile il discorso qualificazione – anche sapendo che la gara di ritorno si giocherà in casa.
I nostri invece si sono spinti in massa in avanti in occasione di una banale rimessa laterale e si sono fatti infilare in contropiede, incassando così un gol che potrebbe aver indirizzato in maniera definitiva la qualificazione ai quarti di finale di Europa League.
Sconfitte come queste fanno male per diversi motivi: fanno male all’autostima, perché dopo una buona prestazione in trasferta contro il Tottenham ci riportano al vecchio leit-motiv dell’Arsenal debole lontano dall’Emirates Stadium; fanno male fisicamente, perché rendono la partita di ritorno di giovedì prossimo una battaglia in più di cui non avevamo proprio bisogno, anche alla luce del big match di domenica contro il Manchester United; fanno male tatticamente, perché del tanto sbandierato pragmatismo di Unai Emery non si è trovata traccia nella prestazione di ieri (e non solo, purtroppo) e infine fanno male a noi tifosi, che ci eravamo forse illusi che lo scivolone contro il BATE Borisov fosse solo un episodio estemporaneo.
Tra domenica pomeriggio e giovedì sera ci giochiamo tutta una stagione, due partite alle quali arriviamo con il morale a pezzi e qualche assenza di troppo (Lucas Torreira in campionato, Alexandre Lacazette e Sokratis in Europa League), mentre i nostri avversari sono freschi d’impresa titanica e stanno letteralmente volando.
Sette giorni ci separano dal conoscere il nostro destino e sapere con più certezza che ne sarà della manciata di partite che ci separano da un’estate, la prossima, che probabilmente vedrà la squadra rivoluzionata.
Sette giorni per sapere se l’anno prossimo, con l’arrivo imminente di Monchi da Roma, prepareremo una squadra da Champions League oppure se saremo diventati ufficialmente una nobile decaduta del calcio continentale, che ormai deve accontentarsi dell’Europa League e non può permettersi voli pindarici.

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