Colpa di Arsène Wenger.
Colpa di Ivan Gazidis.
Colpa dei giocatori.
Colpa di Unai Emery.
Colpa dei tifosi.
Colpa di Raúl Sanllehi.
Colpa di Freddie Ljungberg.
Colpa di Josh Kroenke.
Colpa di Arsenal Fan TV.
La caccia al colpevole più colpevole è aperta.
È il cerchio della vita, come cantava Elton John ne Il Re Leone; per noi tifosi, è il cerchio del colpevole: quando le cose vanno male, sentiamo il bisogno viscerale di puntare il dito verso qualcuno.
C’è chi se la prende con quelli che vanno in campo, chi con quello che li manda in campo e chi con quello che ha scelto quello che li manda in campo.
Sembra di assistere ad una sorta di competizione a chi trova il colpevole migliore, quando la cosa più ovvia sarebbe ammettere che sono tutti colpevoli: i giocatori in primis, perché sostanzialmente sono loro a sbagliare sul campo, l’allenatore che ha preparato la squadra per una determinata partita e la dirigenza che valuta l’operato dell’allenatore e dei giocatori.
Per quanto ne so io, la caccia alle streghe non ha mai fatto bene a nessuno.
Mentre noi siamo qui a discutere se Pierre-Emerick Aubameyang è più o meno colpevole di Alexandre Lacazette e stiamo a decidere chi sia più imperdonabile tra Arsène Wenger, Ivan Gazidis, Raúl Sanllehi e Unai Emery, la classifica dice che siamo a +4 dalla zona retrocessione e -10 dalla zona Champions, con una partita in meno rispetto al Chelsea: è ora di rivedere le nostre priorità.
Mentre su Facebook e Twitter imperversano le liste di giocatori da vendere immediatamente, regalare, spedire a proprie spese o accompagnare personalmente al nuovo Club di destinazione e quelle di giocatori da comprare, con tanto di prezzi e disponibilità – come se si trattasse di un Master League e non della Premier League – la nostra stagione è ogni minuto più compromessa e l’unico ingrediente indispensabile per risollevarsi viene sistematicamente ignorato: la volontà.
Basta guardare Duncan Ferguson e l’Everton per capire che non serve esattamente un miracolo per tornare a vincere – basta la volontà. Non essendo un fine stratega, l’ex attaccante si è limitato a mandare in campo i giocatori nei propri ruoli più naturali e puntare tutto sulla grinta, la solidarietà e la voglia dei propri uomini, che ha saputo motivare a dovere.
Non è un modello sostenibile sul lungo termine e non è la soluzione a tutti i problemi dell’Everton ma per lo meno ha dato una scossa molto forte alla squadra e una vittoria che potrebbe essere fondamentale per il campionato dei Toffees.
Il manager ha saputo trascinare i giocatori, che a loro volta hanno trascinato i tifosi e improvvisamente tutto è apparso meno tetro, tutto è sembrato di nuovo possibile.
Dobbiamo tornare alle cose semplici, alle nozioni di base e fare un passo alla volta: gli strascichi lasciati dalle ultime settimane della gestione Emery saranno lì ancora per un po’ di tempo e l’unico modo per scacciarli e riacquistare fiducia – un processo lento e tutt’altro che lineare: un passaggio alla volta, una buona azione alla volta, un risultato alla volta fino a quando l’autostima non tornerà a livelli tali da poter sopportare gli inevitabili passi falsi.
Ammiro la volontà di Freddie Ljungberg di riportarci ad un gioco e ad un’identità più familiari ma non bastano una manciata di allenamenti per riuscirci: non possiamo, da un giorno all’altro, tornare ad essere la squadra offensiva e padrone del campo che eravamo qualche anno fa (per lo meno in casa) e non possiamo farlo con un’autostima così fragile da essere ridotta in mille pezzi da due passaggi sbagliati di fila.
Continuando a schierare giocatori in posizioni non familiari e continuando a provare ad adattare i giocatori alle proprie idee, Freddie Ljungberg non farà altro che peggiorare le cose: se invece si deciderà a schierare i giocatori a seconda del sistema che ha in mente, le aspettative e i ruoli saranno molto più chiari e quindi più facilmente interpretabili da chi scenderà in campo.
È solo un esempio ma quando insiste nel forzare Mesut Özil largo a destra nel tridente, gli unici risultati che ottiene sono negativi: il tedesco non influisce sulla partita e si estranea dal gioco; i centrocampisti dietro di lui devono lavorare il doppio perché privi di un collegamento con l’attacco e Hector Bellerín si ritrova costantemente in inferiorità numerica, perché Mesut Özil non copre i suoi sganciamenti.
Lo stesso si può dire per Pierre-Emerick Aubameyang, esiliato sulla fascia per far posto ad Alexandre Lacazette e conseguentemente avulso dal gioco, lasciato senza palloni giocabili e senza occasioni da gol, quindi frustrato e arrabbiato con il mondo.
Perché insistere? Per non urtare la sensibilità delle cosiddette stelle di una squadra che non vince da due mesi e che attualmente si trova al decimo posto?
Se il gioco di Freddie Ljungberg non prevede un numero dieci, così sia; se il gioco di Freddie Ljungberg prevede due ali vere, così sia; il modo di giocare dev’essere chiaro per i giocatori, che sapranno quindi cosa aspettarsi da ognuno dei propri compagni e anticipare possibili problemi o pericoli, anziché ritrovarsi in sette davanti alla linea del pallone nel momento in cui questo torna improvvisamente in possesso degli avversari.
Questa routine, quasi noiosa, è una benedizione per l’autostima di una squadra e dei suoi componenti, l’ingrediente di base per recuperare fiducia e, un passo alla volta, osare sempre di più.
In momenti come questi è un dettaglio a fare la differenza, un episodio a cambiare radicalmente l’andamento di una partita e la prima preoccupazione di Freddie Ljungberg dovrebbe essere quella di fare in modo che la squadra sia mentalmente pronta ad affrontare gli ostacoli, soprattutto quelli inaspettati – cosa che al momento non siamo in grado di fare.
Il nostro compito, in quanto tifosi, è quello di sostenere la squadra quando non riesce ad affrontare questi imprevisti, anziché dare subito di matto e chiedere la testa di chiunque sia anche lontanamente connesso con il Club.
Quella di domani è un’altra sfida difficilissima, cerchiamo di non renderla ancora più difficile.