Poche ore fa The Athletic ha pubblicato un’intervista di David Ornstein a Mesut Özil che offre innumerevoli spunti di riflessione.

Non pensavo mi sarei ritrovato di nuovo a parlare del tedesco e di come finirà la sua esperienza all’Arsenal ma eccomi qua: c’è davvero tanto da elaborare sulle parole del trequartista, al quale va dato atto di non essere mai banale.

Che si tratti di parole sincere o di un’abile manovra di pubbliche relazioni, resta il fatto che Mesut Özil continua a far parlare di sé – anche se purtroppo non per quanto di buono potrebbe fare in campo.

Leggo di un Mesut Özil determinato, voglioso di riprendersi il posto in squadra e lontanissimo dall’idea, diffusa ovunque, del giocatore che si accontenta di intascare il ricco assegno settimanale e restare comodamente a casa.

Dall\’intervista emerge un Mesut Özil diametralmente opposto a quello che abbiamo visto sul campo, tanto da chiedersi se sia la stessa persona; c’è un animo battagliero, la volontà di far ricredere chi dubita delle sue qualità e della sua professionalità e perfino una parolaccia (bullshit, stron*ate) che stona con la sua immagine schiva ed elusiva.

“Non arriverò al precampionato pensando ‘è l’ultimo anno, posso rilassarmi – tanto so che non gioco’. Sono tempi difficili per l’Arsenal e io voglio dare una mano. Ho ancora molto da offrire e mi alleno con il massimo impegno, che faccia parte dei convocati oppure no. Quando ti chiamano devi essere pronto. Sto facendo tutto il massimo sul campo, con preparatore atletico e in palestra. È tutto ciò che posso fare.”

“La gente ti ama o ti odia, ciò che conta però è l’opinione di chi ti conosce davvero. Quel che gli altri dicono del mio gioco o del mio carattere è irrilevante – dicono solo stron*ate per farsi pubblicità o attirarsi attenzioni attraverso l’uso del mio nome.”

Dov’è questo Mesut Özil, quando scende in campo?

Il problema, mentre leggo questa intervista, è che ogni parola del tedesco è simultaneamente limpida e oscura, c’è una scia di dubbi che serpeggia ad ogni frase e che s’insinua tra quel che Mesut Özil dice e quello che non dice.

C’è tanto “io” nelle parole di Mesut Özil e traspare un certo vittimismo nel modo in cui si presenta come il professionista esemplare, che non hai mai fatto nulla di male e che viene ostracizzato in maniera inspiegabile.

A più riprese, infatti, il tedesco dice di essere pronto, di allenarsi bene, di non essere mai stato infortunato e ricorda di aver giocato dieci partite di fila, prima del blocco del campionato; non attacca mai Mikel Arteta, con il quale racconta di aver un buon rapporto, ma non rinuncia ad un sibillino “possibly”quando David Ornstein gli chiede se la sua esclusione possa essere legata alla decisione di rifiutare il taglio dello stipendio.

Anche in questo frangente, così come quando parla della persecuzione degli Uiguri in Cina o del movimento Black Lives Matter, Mesut Özil non si nasconde: conferma di aver rifiutato la proposta del Club di tagliare lo stipendio del 12,5% e spiega, nel dettaglio, che non è uno da prendere decisioni non informate.

“Noi giocatori eravamo tutti d’accordo nel voler contribuire ma avevamo bisogno di maggiori informazioni e tante domande sono rimaste senza risposta. Eravamo tutti d’accordo con il rinvio del pagamento degli stipendi data l’incertezza del momento e poi un\’eventuale riduzione – e personalmente sarei stato disponibile anche ad un taglio più sostanzioso – una volte che i risvolti economici sarebbero stati più chiari. Tuttavia siamo stati spinti a prendere una decisione senza averne discusso adeguatamente. Chiunque, in questa situazione, ha il diritto di conoscere i dettagli, capire perché siano prese certe decisioni e dove finirà il denaro ma non ci sono stati comunicati dettagli sufficiente e abbiamo dovuto decidere in fretta. Troppo in fretta per qualcosa di così importante, c’era troppa pressione.\”

Fino a qui tutto bene, poi il tedesco però inizia a scivolare nel vittimismo, con note di complottismo:

“Non era giusto, soprattutto per i più giovani, e quindi ho rifiutato. […] La gente sa quanto sono generoso e, per quanto ne so io, non sono stato l’unico a rifiutare la proposta ma ad uscire (sulla stampa) è stato solo il mio nome. Immagino che sia perché sono io e la gente ha passato gli ultimi due anni a provare a distruggermi, di rendermi infelice, di continuare una conversazione ben precisa con la speranza di spingere i tifosi ad arrabbiarsi con me e dipingere un ritratto non veritiero.”

Mi piacerebbe poter credere alle parole di Mesut Özil ma sono arrivato ad un punto in cui le parole si perdono nel vento e quel che resta sono le sue assenze. Mikel Arteta è il terzo allenatore che mette in disparte il tedesco, dopo Unai Emery e Freddie Ljungberg, e le possibilità che tutti e tre ce l’abbiano con lui o che decidano di non schierarlo nonostante sia un professionista esemplare si assottigliano.

Non ho più tempo per Mesut Özil, purtroppo: la squadra è un’altra, le dinamiche all’interno dello spogliatoio sono altre, il calcio stesso è un altro e Mesut Özil sembra voler restare sempre sé stesso, pur dipingendo un ritratto completamente diverso attraverso quest’intervista.

Se in generale restare fedeli a sé stessi è un tratto positivo, restare immarcescibili e aspettarsi che il resto del mondo si adatti a te è un peccato capitale, da qualsiasi angolo lo si voglia vedere.

Restare perennemente sé stessi vuol dire non mettersi mai in discussione, non volersi migliorare, non adattarsi al cambiamento dei tempi e ha come conseguenza l’estinzione.

Altri compagni di squadra, come Dani Ceballos e Ainsley Maitland-Niles, hanno accettato questo cambiamento e ne sono usciti migliori; Mesut Özil, dall’alto della sua smisurata autostima, non sembra pronto a fare questo passo e si aspetta che l’allenatore lo mandi in campo comunque, in un calcio che non prevede più (ahimé) giocatori come lui.

Trovo ironico e perfino poetico che tutto ciò che serve sapere su Mesut Özil, un maestro nel trovare spazi inaccessibili tra le linee, si possa trovare proprio tra le linee di un’intervista.

@ClockEndItalia

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